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venerdì 10 febbraio 2017

Cosa ci appartiene della lettera di un suicida che non conosciamo

In generale, scrivo quando ho qualcosa da dire, questo è il principio che regola questo blog, non c'è la necessità di esprimersi su ogni avvenimento, ne su ogni fatto saliente.

Sulla vicenda di Michele, non ho sentito finora il bisogno di scrivere nulla di mio, perchè a leggere la lettera, le sensazioni ricevute sono state tante, non mi trovavo in nessuna semplificazione fatta che ho visto in giro tra commenti e quotidiani (è la politica, è il lavoro, era depresso, addirittura era debole, o grida del tipo "ecco come ci riducete" a un fantomatico nemico esterno, ecc..) ma di una cosa ero sicura, in quello che ci vedevo di quell'atto così intimo e personale, c'era qualcosa di sociale.

La depressione è un ambiente molto strano in cui vivere, è una stanza semibuia con le pareti di vetro deformante e insonorizzante, se non ci sei mai stato dentro, non la puoi capire e un po' bisogna saperlo accettare.

La depressione che si esprime in quella lettera, a me, che non ho conosciuto Michele e posso solo in qualche modo vedere dei collegamenti che però sono soggettivi, cioè sono frutto di quello che vedo io e interpreto io per le mie personali esperienze, per i miei studi e che quindi in primis non può assolutamente essere un punto di vista perentorio ne giudicante, la depressione di quella lettera, dicevo, è sembrata sociale.

Sociale perchè non viene da un fenomeno specifico e unicamente individuale ma viene da una pressione esterna che la persona non ha retto, così come è sociale il suicidio di chi viene verbalmente distrutto attraverso i social per una foto o un video diffuso. Non diremmo mai che è personale perchè la pressione che ha spinto all'atto personale, è sociale. 
La depressione della lettera, io l'ho interpretata così ma magari non lo è, trovo comunque giusto definire un discorso che da quella lettera scaturisce, perchè come tutti in quella lettera posso specchiarmi e vedere qualcosa che anche se non è detta da Michele, magari vale la pena dire. 

La depressione di quella lettera io la vedo fuori da quella lettera, nelle espressioni di rabbia da social, nelle repressioni poliziesche esagerate, nelle paure del nuovo che dilagano nei commenti e negli articoli, nella strumentalizzabilità delle persone. 

In tutto questo io ci vedo un isolamento delle proprie potenzialità, della propria capacità sociale, quella del confronto, anche di crescere inteso però come qualcosa che non sia una spinta contro se stessi per degli obiettivi chiari e condivisi, ma un germoglio con i suoi tempi, la capacità dell'albero di intersecarsi nella rete che gli è di mezzo, l'isolamento che non è mancanza di amici ma mancanza di qualcosa che è la scintilla per fare tutte le corse che servono a vivere, è anche l'isolamento della propria rabbia.

Ci vedo l'isolamento dalla passione, passione non amorosa ma ideale, collettiva, politica, sociale, la passione di essere e fare qualcosa in cui si crede e basta.

Tutto questo in nome dell'efficienza, il sacrificio che ci si dice, è sopportabile e necessario, in nome di un immaginario brillante che coincide con il lavoratore pimpante e inesauribile, vestito bene, acclamato per le proprie capacità, che raggiunge obiettivi, macina strada, si accasa, come un essere umano sempre in corsa con pochi obiettivi molto chiari. 

Mi sono trovata a pensare che sempre più, ci troviamo ad assistere a chiusure, regolamentazioni implicite e non, istituzionali e popolari sugli aspetti della nostra esistenza, personali ma anche sociali, che poi diventano chiusure di quello che siamo.

Per chiusura intendo la restrizione delle attività possibili oltre il lavoro (che comunque resta anche un po' inspiegabilmente la nota fondamentale su cui tarare il resto del tempo, che identifica la nostra personalità, il nostro posto nel mondo, sembra che anche solo il chiedersi se questo sia normale e dovuto in quanto esseri umani, già ci renda un po' strani) e delle modalità con cui metterle in pratica, sempre più definite in ambiti accettabili e in qualche modo estremamente esperienziali ma fruibili, non partecipanti.

La compartimentazione delle nostre possibilità, capacità, occasioni che allo stesso tempo diventano individuali e non collettive, ma soprattutto sono o devono essere in qualche modo funzionali a qualcosa. 

Ci si priva di confronto, anche di scontro, dello scomodo, del brutto, di quello che non capiamo, che non ci piace, ma non ci accorgiamo che così facendo ci priviamo della possibilità di crescita non solo personale, ma collettiva, la possibilità di essere qualcosa di diverso, capire qualcosa di diverso e affrontarlo, discutere, dibattere, affrontare le paure, ascoltare altre opinioni, cambiare idea.

Cambiare idea come processo è tra i più faticosi e interessanti che possano capitarci, soprattutto quando parliamo di pilastri della nostra personalità come la religione o la politica, se ci priviamo di questa possibilità togliendo gli elementi di scontro, eliminando quello che ci sembra inadatto al nostro esatto modo di vivere, (è personale) ci priviamo di vitalità, di socialità e di capacità che magari non sono funzionali al lavoro ma a noi sì, e ci priviamo della capacità di rispettare ciò che non capiamo o non condividiamo.

Molto spesso si fruisce di attività e gusti che durano il tempo di usarli.
Consumiamo attività ed esperienze come prodotti, consumiamo la cultura attraverso i musei, i post, e tendenzialmente mettiamo in teche tutto quello che non è l'ambito che ci compete come lavoratore o parente, categorizziamo quello che ci compete da quello di cui effettivamente fruiamo da spettatori o meglio ancora da consumatori.

Siamo consumatori sociali, culturali, sportivi e alimentari, in cerca costantemente di prodotti nuovi che ci diano dei momenti vissuti che purtroppo però si esauriscono, alla fine della consumazione, e rnon restano dentro abbastanza, senza interruzioni per poi condurci a un'azione.

Chiudo dicendo che Michele ha avuto dei motivi che noi non possiamo ne sapere con certezza ne giudicare, ma che la sua lettera ci ha lasciato probabilmente involontariamente, uno spazio di identificazione che può farci guardare e ragionare sui meccanicismi di efficienza e di consumo di vita a comparti in cui ci stiamo chiudendo.

Riporto un articolo, uscito su l'Espresso, l'unico che ho trovato davvero bello e ben scritto sulla vicenda.

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